L’agroalimentare Made in Italy continuerà la propria parabola di crescita anche nei prossimi anni e lo farà consolidando le proprie posizioni su alcuni mercati chiave, o Paesi “bandiera” (USA, Germania, Regno Unito, Canada e Giappone) e guadagnando posizioni su alcuni tra i mercati più promettenti, ribattezzati Paesi “frontiera” (Polonia, Australia, Cina, Corea del Sud e Messico). È quanto è emerso oggi dall’analisi effettuata da Nomisma e presentata nel corso dell’incontro organizzato da Agronetwork «Italian Food Style, nuove terre, nuovi modelli» che si è tenuto a Roma nella sede di Confagricoltura.
Agronetwork è l’associazione fondata da Confagricoltura, Nomisma e Luiss per progettare il futuro dell’agroalimentare italiano. «L’export alimentare Made in Italy – ha detto il responsabile agroalimentare di Nomisma, Denis Pantini – è cresciuto lo scorso anno del 6% e sta continuando a crescere, di circa il 2,3%, quest’anno. Un passo indietro rispetto al 2017 ma un risultato molto positivo se si considera che è in atto un rallentamento dell’economia mondiale con una contrazione dei consumi alimentari che sta penalizzando tutti i nostri principali competitors. L’Italia e la Francia sono gli unici due Paesi che, nonostante tutto, stanno registrando anche nel 2018 un trend positivo dell’export alimentare».
Tuttavia, gli spazi per innescare una nuova fase, duratura, di sviluppo sembrano evidenti. «Su quello che è il principale importatore mondiale di prodotti alimentari, gli USA – ha aggiunto Pantini – un Paese che importa cibi e bevande per € 1,5 miliardi, noi siamo solo il quinto fornitore, superati da altri Paesi produttori di commodity. Vantiamo buone performance in alcuni settori, come il vino o anche l’olio d’oliva (anche se in quest’ultimo segmento abbiamo perso posizioni negli ultimi anni) ma soprattutto abbiamo ancora grandi margini di crescita. Nel complesso l’Italia vanta nell’alimentare una propensione all’export del 24% circa contro l’oltre 30% di Francia e Germania. Insomma, possiamo fare di più».
E in questa prospettiva molto dipenderà dalla capacità di guadagnare posizioni su alcuni di quelli che sono stati definiti Paesi “frontiera”. I numeri parlano di performance positive in Polonia e in Corea del Sud ad esempio ma molto – inutile dirlo – dipende dalla Cina. «Paese – ha detto ancora Pantini – nel quale nei prossimi anni si calcola si registrerà un tasso di inurbamento del 62%. Il che significa che milioni di persone dalle campagne si trasferiranno in città dove i consumi alimentari sono molto più vicini agli stili occidentali.
L’Italia in Cina (Paese nel quale i consumi di cibi e bevande crescono a un ritmo analogo alla crescita del PIL, tra il 6% e il 7% l’anno) è tra i fornitori dell’agroalimentare addirittura al 27° posto con una quota di mercato dell’1% appena. Siamo il leader nel cioccolato, ma siamo indietro in settori più vicini alle nostre tradizioni. Siamo ad esempio il terzo fornitore nella pasta e il quinto nel vino. Insomma, gli spazi di crescita ci sono tutti».
Per crescere all’estero molto spesso ci si concentra solo sulla leva della promozione che resta un anello decisivo, ma non bisogna però perdere i vista gli elementi che vanno a incidere sui “fondamentali” del settore agroindustriale italiano. «Occorre un grande piano strategico per l’agroalimentare italiano – ha detto il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti – perché i dati positivi di questi anni sono maturati sulla base della sola iniziativa individuale degli imprenditori italiani e al di fuori cioè di una strategia-Paese. Con ogni probabilità si potrebbero raggiungere risultati molto migliori se gli sforzi venissero coordinati all’interno di una strategia complessiva.
Inoltre è molto importante continuare sulla strada degli accordi internazionali (decisivi in uno scenario di nuovi protezionismi), non tralasciare aspetti chiave come la logistica e i canali distributivi, e non voltare le spalle all’innovazione e alla ricerca tecnologica che da secoli sono gli elementi che hanno consentito di aumentare le rese produttive (anche in presenza di un calo delle superfici coltivate), rendendo disponibili a una popolazione di miliardi di persone cibi sempre più sicuri».