Rapporto ISMEA: l’Italia mantiene il primato europeo del valore aggiunto ma l’incidenza degli investimenti si è ridotta negli ultimi dieci anni dal 42 al 27% e i margini per la componente produttiva della filiera sono sempre più scarsi.

 

Agricoltura italiana formato export, certo, ma anche sempre più dipendente dall’estero per l’approvvigionamento delle principali materie prime agricole.

Senza dimenticare, abbagliati dal record dei 41 miliardi di vendite (agroalimentari) oltreconfine, che negli ultimi anni anche l’import è aumentato, ancora più velocemente.

La fotografia che emerge dal Rapporto ISMEA sulla competitività dell’agroalimentare, presentato a Roma, offre la possibilità di capire le potenzialità ma anche le debolezze croniche del settore in un momento chiave come quello attuale, alla vigilia dell’ennesima riforma della Politica Agricola Comune che vede il nuovo governo italiano impegnato in un negoziato complesso e difficile dove per ora l’unica certezza sono i tagli assoluti alla spesa agricola e il crollo della sua incidenza relativa sul bilancio europeo sotto il 30%, dall’attuale 40.

Dal rapporto emerge che in dieci anni è andato in fumo nelle campagne italiane quasi un terzo degli investimenti pre-crisi. E questo malgrado la robusta iniezione di fondi pubblici provenienti dalla precedente programmazione per lo sviluppo rurale (2007-2013) e da quella attuale (2014-2020), partita però con i motori ingolfati.

Nel 2007, rileva lo studio, l’incidenza degli investimenti sul valore aggiunto agricolo rasentava il 42%, ma l’anno scorso lo stesso rapporto è precipitato al 27%, cedendo in due lustri 15 punti percentuali, una perdita molto più significativa di quella registrata nella media dell’Unione Europea.

È mancata la fiducia, ma sono mancati anche i capitali necessari a rilanciare e ammodernare il settore.      Il sistema bancario, sottocapitalizzato e zavorrato dai prestiti incagliati, ha erogato alle aziende agricole il 28% in meno di finanziamenti a medio e lungo termine. Ma i rubinetti non si sono aperti neanche nel dopo-crisi, con gli ultimi cinque anni che hanno lasciato in eredità un meno 18% di erogazioni e con il dato degli ultimi dodici mesi che ha certificato un taglio ulteriore del 2,5 per cento.

Un’agricoltura senza credito che non è riuscita, nelle difficolta di questi anni, ad arginare l’emorragia di forza lavoro, seppure strutturale nel settore. Il bilancio è di 66mila occupati in meno dal 2007 al 2017, anche se i dati più recenti offrono una lettura meno negativa, giustificata dal parziale recupero dei livelli occupazionali sperimentato a partire dal 2013.

Ci sono poi i vecchi problemi dei rapporti di forza interni al sistema agroalimentare mai superati, che lasciano pochi margini alla componente produttiva (agricola e industriale) e avvantaggiano il trade, con gli utili di filiera ancora connotati da un’accentuata sperequazione.

Ciononostante, l’agricoltura italiana mantiene il primato per valore aggiunto in Europa.

Altro punto di forza sono le esportazioni. Negli ultimi cinque anni, considerando anche i prodotti trasformati, sono aumentate del 23% superando i 41 miliardi di euro a fine 2017.

C’è stata anche una mini ripresa per i consumi alimentari, ma la spesa finale è ripartita grazie soprattutto all’impulso dell’extradomestico (food delivery in primis) che ha trovato l’abbrivio con largo anticipo rispetto al consumo intra-door. La spesa alimentare in casa e fuori casa ha messo a segno l’anno scorso una crescita del 2,3%, solo di poco inferiore alla dinamica generale dei consumi, aumentati del 2,6%.

«La nostra mission è quella di aumentare l’export dai 41 miliardi attuali e quindi vogliamo aiutare quelle aziende che vogliono portare dall’altra parte del mondo il 100% italiano ma anche aiutare gli agricoltori che non riescono ad andare oltre i mercati rionali», ha detto intervenendo alla presentazione il Ministro delle Politiche agricole Gian Marco Centinaio. Aggiungendo però che «sul tema dell’etichetta l’Europa non è dalla parte di questo governo, che vuole tutelare i cittadini e i consumatori al cospetto di un’Europa che invece è dalla parte di chi dice tutto e non dice niente tutelando le aziende e i mercati».

Sul CETA il ministro ha ribadito che «prenderemo una decisione, non appena avremo un quadro oggettivo dell’accordo, per cui non abbiamo fretta. Noi vogliamo tutelare i nostri prodotti e garantire che gli agricoltori vengano tutelati – ha aggiunto –, a partire dagli assessori regionali fino ai parlamentari europei e quindi dai Comuni all’Europa.

Ci vuole la tutela del consumatore finale che deve essere messo in condizione di sapere cosa va a comprare proprio grazie all’etichetta, a esempio per capire se si sta per acquistare un riso coltivato e trattato in Italia o in Birmania. Se vuoi comprare un riso 100% italiano o no devi essere aiutato a saperlo in modo trasparente. Parlando con molti dei miei colleghi stranieri – ha detto Centinaio – tutti vogliono questo», ma poi «in Europa si prende un’altra direzione».

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