L’incontro di giovedì con il Parlamento ha ridimensionato qualsiasi ottimismo, mentre i tempi per ultimare l’iter si fanno sempre più risicati.
Nell’arco di poche ore May ha incassato prima la defezione di due ministri di peso (il titolare del lavoro Esther McVey e soprattutto il ministro della Brexit, Dominic Raab) e poi la minaccia di una mozione di sfiducia, agitata dall’ultra-euroscettico Jacob Rees-Mogg.

Rees-Mogg si dice convinto che May sarà sostituita «nel giro di settimane», non mesi, lasciando intendere di avere la forza parlamentare per costringerla a un passo indietro. In quel caso, l’ipotesi più probabile sarebbe il temuto scenario no-deal: una separazione brusca, senza accordi diplomatici. Ma ora?

Ipotesi 1: May sfiduciata
Sui media britannici, quando si parla del futuro di May, i “se” abbondano. La Premier ha superato indenne il torchio del Parlamento del 16 novembre e una conferenza stampa altrettanto ostica, dove la domanda più ricorrente è stata sull’opportunità di dimettersi. Concretamente, però, il suo passo indietro potrebbe essere favorito dalla mozione di sfiducia avanzata da Rees-Mogg.

L’iter può scattare se arriveranno almeno 48 lettere di membri del parlamento (il 15% degli attuali deputati Tory) alla Comittee 1922, l’organismo che sovrintende all’elezione dei leader di partito. Rees-Mogg sostiene di avere dalla sua un drappello di circa 60 deputati, rappresentanti dell’ala più intransigente della Brexit. Ma al momento le lettere non sono arrivate a destinazione.

Ipotesi 2: May resta al potere
Se May resta in sella, l’appuntamento più immediato è fissato al summit europeo del 25 novembre (ore 9:30). Qui i leader di 27 paesi UE dovranno formalizzare un accordo raggiunto, per ora, solo a livello tecnico. Il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha annunciato che il vertice è da considerarsi confermato, a meno che «non succeda qualcosa di straordinario».
Tusk, in un comunicato congiunto con il capo-negoziatore europeo Barnier, si è lasciato andare anche a un messaggio abbastanza accomodante: «Per quanto sia triste nel vedervi andare via – si legge – Farà di tutto per rendere l’addio meno doloroso». Il via libera formale dei 27, però, è solo l’inizio di un percorso ben più tortuoso.

LO SCOGLIO DEL PARLAMENTO BRITANNICO
Lo scoglio maggiore sarà il voto del Parlamento britannico, atteso per dicembre. Il testo formalizzato fra Londra e Bruxelles dovrà ottenere il via libera della Camera dei Comuni.
May dovrebbe riuscire a tenere sotto controllo il suo stesso partito, i Tory, spaccati a metà fra Brexiter accaniti e parlamentari favorevoli all’accordo; il malcontento del Partito Unionista Democratico, i nordirlandesi protestanti, delusi da un’intesa che rischia di allontanarli dalla sfera di influenza di Londra; un partito laburista ondivago sulla sua scelta finale, ma spinto dal segretario Jeremy Corbyn in direzione di uno scetticismo di fondo sull’intesa.

COSA SUCCEDE CON IL SÌ…
Se l’accordo centrasse il via libera, la palla tornerebbe alla UE. L’Europarlamento sarebbe chiamato a dare il suo ok al testo in una assemblea plenaria, entro alla scadenza che incombe sul processo: il 29 marzo 2019. Dopo di che scatterebbero i primi 21 mesi sarebbero di transizione, per gestire ulteriori negoziati sui rapporti commerciali. Il Regno Unito diventerebbe definitivamente un Paese Terzo il 1 gennaio 2021.

…E CON IL NO
Se il parlamento bocciasse l’accordo, il futuro sarebbe ancora più incerto. Il Regno Unito potrebbe andare verso uno strappo brusco, il cosiddetto scenario no-deal: niente periodo di transizione e niente accordi commerciali o politici di alcun tipo, ma una cesura netta che lascerebbe diversi vuoti sui profili che vanno dalla circolazione delle merci alle validità dei passaporti britannici o europei.

Entro la data del 29 marzo, però, si potrebbero delineare anche gli scenari di una nuova chiamata alle urne (in combinazione con un addio di May) o di un secondo referendum. Per restare, o cercare di restare nella UE.

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