Alla London Business School, la più conosciuta scuola di management d’Inghilterra ad un passo da Regent’s Park, dove un programma MBA costa quasi £ 80 mila, l’argomento è inevitabile: Brexit e le sofferenze del governo May, sospeso in un tira e molla che fa profilare lo scenario più temuto in assoluto. Quello della Brexit no-deal, un divorzio senza alcuna forma di accordo diplomatico tra i negoziatori.

È dal referendum del 2016 che le università britanniche lanciano lo stesso allarme: la Brexit mette a repentaglio il sistema dell’higher education, il tesoro dell’«istruzione superiore» che vale miliardi di sterline per le casse del Regno Unito. Uno scenario che si fa tanto più drastico nella prospettiva di un divorzio senza intese, capace di tagliare fuori la Gran Bretagna da qualsiasi convenzione con il mercato comunitario e dal suo bacino di iscrizioni, fondi e partnership. È vero che il governo britannico si è affrettato a ribadire l’estensione fino al 2019-2020 dell’equiparazione fra studenti domestici ed europei, consistente soprattutto nella possibilità di pagare lo stesso livello di tasse e di accedere ai meccanismi di prestito (student loan).

Resta in sospeso il post-Brexit: dal taglio dei fondi europei sulla ricerca all’effetto “deterrente” sulle matricole UE e internazionali. Come i college statunitensi stanno scontando un calo di iscrizioni dovuto al clima instaurato dall’amministrazione Trump, così un Regno Unito isolato rispetto all’Europa potrebbe dirottare altrove il capitale umano (e finanziario) che tiene in piedi il sistema accademico britannico. Un’analisi di UK Universities, un portale specializzato in politiche universitarie, ha rilevato che gli atenei britannici generano un impatto di circa £ 95 miliardi e oltre 940 mila posti di lavoro sul territorio. Numeri che potrebbe subire uno scossone dopo l’avvio del divorzio da Bruxelles, soprattutto in assenza di un “paracadute” ad hoc per le istituzioni accademiche.

Il sistema britannico ha sempre goduto di un mix di fattori favorevoli: la reputazione globale delle sue università, l’elemento linguistico, i costi importanti ma ancora accessibili rispetto a quelli dei college statunitensi. Oggi la Gran Bretagna capitalizza il suo appeal accademico ospitando 442.375 studenti universitari stranieri (quasi 135 mila gli europei), per un ritorno economico stimato intorno alle £ 20 miliardi l’anno. Nei suoi dipartimenti lavora uno staff di almeno 76 mila cittadini non britannici, 43 mila dei quali in arrivo dalla UE. Le università britanniche incidono sul 15,2% delle pubblicazioni scientifiche, pur collocandosi in un Paese che vale per meno dell’1% della popolazione globale.

Il governo britannico ha sempre mantenuto una linea accomodante sulla questione universitaria, cercando di rassicurare rettori e studenti che lo strappo con la UE non avrebbe offuscato l’attrattività del sistema accademico e le sue relazioni con l’Europa. Le prime fasi dei negoziati sembravano andare nella direzione sperata, blindando l’equiparazione degli europei ai cittadini britannici e salvando, almeno fino al 2020, la partecipazione a programmi come Erasmus e i Fondi alla ricerca di Horizon. Eppure, una rottura senza compromessi fra Londra e Bruxelles metterebbe a rischio le conquiste date per scontate finora, per non parlare dei tanti dossier ancora in bilico su politiche di immigrazione, cooperazione con gli istituti UE e accesso a finanziamenti elargiti dall’Europa.

Downing street, secondo le università, dovrebbe garantire un sistema di immigrazione accademica «con barriere minime» per gli ingressi, preservare il riconoscimento reciproco delle qualifiche, candidarsi a quote per il nuovo Erasmus+ e siglare partnership con Bruxelles che tengano in vita i progetti condivisi con gli istituti del Vecchio Continente. In riferimento ai Fondi UE, l’esclusione da programmi (come la nuova versione Horizon 2020) potrebbe venir bilanciata grazie a «qualche accordo reciprocamente vantaggioso» con la European Investment Bank. L’istituto ha offerto alle organizzazioni britanniche prestiti a interessi vantaggiosi per attività di ricerca pari a un totale di € 5,9 miliardi fra 2007 e 2016.

Il blocco dei fondi europei, sommato all’assenza di partnership bilaterali, assesterebbe un colpo notevole alla ricerca e quindi alle pubblicazioni scientifiche degli atenei inglesi.
La mobilità di studenti e staff accademico sarebbe penalizzata sia in uscita (ad esempio negando l’accesso al programma Erasmus+) sia, soprattutto, in entrata: non bastassero le complicazioni burocratiche legate alla fine della libera circolazione per i cittadini UE, il rialzo delle rette pronto a scattare dopo il 2020 potrebbe dissuadere una quota importante di studenti europei interessati al Regno Unito.

Un’offerta maggiormente flessibile di altri poli europei, capaci di offrire corsi in inglese a prezzi più bassi, aumenterebbe l’attrattività di mete come Paesi Bassi, Germania e i “vicini di casa” irlandesi anche sulle centinaia di migliaia di studenti in arrivo dal resto del mondo. Ad oggi le iscrizioni hanno tenuto e stanno, anzi, capitalizzando la corsa all’immatricolazione dovuta al timore di imbattersi in un Paese diverso (e meno accogliente) dopo il 2020.

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