La linea italiana sui dazi potrebbe cambiare. Il sottosegretario al commercio, Geraci ha intenzione di far elaborare uno studio di impatto su base produttiva e territoriale dei settori del Made in Italy. Dopo un’adeguata valutazione numerica, sarebbe possibile richiedere all’ UE  di proteggere determinati settori che soffrono di più per occupazione e competitività. Ad esempio, un’adeguata analisi costi-benefici, potrebbe giustificare una parziale perdita di PIL, da compensarsi in termini di maggiore equità e posti di lavoro.

La proposta è quella di dazi selettivi, per obiettivi specifici e, in alcuni casi, anche di breve termine. Dato che la Cina spicca per surplus commerciale mentre gli USA per deficit, la strategia di applicare dei dazi specifici per penalizzare il surplus non trova corrispondenza immediata nei bilanci commerciali.

La situazione internazionale è che, mentre l’Europa è aperta ad ogni tipo di trattato, Cina e USA si stanno chiudendo. Il dazio non è necessariamente sintomo di chiusura, soprattutto se in alcuni casi una determinata importazione rischia di danneggiare il Made in Italy.

Per il 2019, la promozione del Made in Italy, tra fondi ordinari e straordinari, avrebbe € 80 milioni in meno di dotazione rispetto ai € 180 milioni del 2018. Il Ministro dello Sviluppo Economico e delle Politiche Sociali, Luigi Di Maio annuncia l’obiettivo di portare gli esportatori da 215mila a 300mila, innalzando il fatturato medio da export oltre i € 500mila .

In riferimento all’esperienza cinese,  l’Italia spesso è andata all’estero senza fare sistema, ovvero senza presentarsi come un brand Italia unico ma con le imprese che apparivano in concorrenza tra loro. In Cina, l’Italia risulta compatta solo quando si parla di moda e di calcio, molto meno se si tratta di presentarsi ed aumentare le quote nel mercato vitivinicolo o agroalimentare.

La strategia nel prossimo futuro dovrà essere indirizzata molto di più al Sud-est asiatico e al MERCOSUR in cui c’è l’opportunità di guadagnare quote grazie alla trade inversion innescata dai dazi americani.  Per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri, bisognerebbe favorire gli investimenti greenfield innanzitutto e poi brownfield. Occorre però porre dei “paletti” alle operazioni di merger and acquisitions, per esempio consentendo di raggiungere il 100% solo gradualmente al fine di attrarre investimenti solidi e di qualità. Anche in questo caso si può pensare a interventi mirati per alcune aree territoriali. Tra le multinazionali, intanto, c’è chi guarda con preoccupazione alle norme sugli incentivi ed il contrasto alle delocalizzazioni.

Con € 40,5 MLD di esportazioni, il “Made in Italy”, l’anno scorso ha raggiunto il suo record storico verso gli Stati Uniti, con un balzo del 9,8% rispetto al 2016. Quindi la possibilità che le schermaglie tra USA e Cina possano estendersi e divorare questo patrimonio costruito negli anni, è una forte preoccupazione. Da giugno 2019, i dazi USA in vigore risultano essere del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio per le importazioni. Bruxelles ha risposto con sanzioni, di pari importo su jeans, bourbon e Harley Davidson.

La Cina o il Far East possono rappresentare un’alternativa proficua e consequenziale. Occorre investire in tal senso al fine di raggiungere questi mercati con i giusti canali distributivi. In molti casi, ciò richiede di essere strutturati con l’e-commerce. Potrebbero però aprirsi spazi in determinati settori che però devono già essere maturi e presidiati; dato che la sostituzione delle importazioni (es. soia) non sempre è possibile.

In questa fase, paradossalmente, essere flessibili, essere capaci di diversificare il più possibile l’export o avere poli produttivi all’estero per essere pronti a sfruttare i benefici delle delocalizzazioni, può essere un vantaggio. In una situazione di questo tipo, il classico problema della dimensione ridotta delle aziende italiane rispetto a quelle di altre Paesi potrebbe tradursi pure in un vantaggio: una media azienda ha infatti maggiore possibilità, rispetto a una grande corporation, nel reindirizzare il proprio export e rilocalizzare parte della propria produzione su mercati alternativi.

 

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