Qualora ci fosse un’uscita disordinata, questa costerebbe cara al Paese. Secondo la Banca d’Inghilterra, in un anno il PIL calerebbe dell’8 % e la sterlina si deprezzerebbe di ¼ del suo valore. Secondo le previsioni del Ministero del Tesoro britannico, il PIL si ridurrebbe addirittura del 9,3 % nei prossimi 10-15 anni. Le cose andrebbero “meno peggio” con l’approvazione dell’Accordo, ma i costi (per il Regno Unito) continuerebbero ad essere alti.

Le 585 pagine dell’Accordo concedono nulla alle aspettative dei Brexiteers. Per il periodo di transizione (successivo al recesso del marzo 2019), il Regno Unito avrà accesso al mercato interno dell’Unione, ma dovrà continuare a pagare contributi al bilancio comunitario e sottostare alla giurisdizione della Corte di Giustizia dell’UE. Dopo il periodo di transizione, il Regno Unito rimarrà comunque vincolato in un’unione doganale con la UE (ribattezzata Single Custom Territory) così da prevenire il ritorno di una frontiera tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda (in coerenza con gli Accordi del Venerdì Santo del 1998).

Brexit, nell’opinione politica vigente, riassume il fallimento di un’intera classe dirigente. Comunque Westminster voterà il prossimo 11 dicembre, il Paese continuerà ad essere diviso al suo interno, la celebrata stabilità dei suoi governi sarà un ricordo del passato, le sue potenzialità economiche ridimensionate.

Ciò succede quando le élite politiche, economiche e culturali di un Paese perdono di vista l’interesse nazionale, rimanendo prigioniere delle loro rivalità interne. Per anni è stato consentito che si diffondesse in quel Paese un’immagine dell’UE priva di fondamento. I media, i partiti, i gruppi hanno rappresentato l’UE come “un’organizzazione incompetente e malevola, in cui dilagano le frodi e l’ipocrisia” (come ricordato anche da Brendan Donnelly).

Il referendum del 2016 è stato un festival delle simulazioni. Si è sostenuto che l’uscita sarebbe stata vantaggiosa, che nella negoziazione il Regno Unito avrebbe avuto la meglio e che l’UE si sarebbe divisa al suo interno. È avvenuto il contrario. L’UE si è dimostrata unita e il Regno Unito ha dovuto prendere atto delle proprie divisioni (politiche e territoriali) interne, oltre che al proprio limitato potere negoziale.

Oltre all’Accordo di recesso, il Regno Unito e l’UE hanno concordato una Dichiarazione politica per definire il quadro delle loro relazioni future. La Dichiarazione elenca i campi di politica pubblica che dovrebbero essere oggetto di collaborazione tra i due partner, limitandosi quindi ad affermare che tale collaborazione dovrà essere “ambiziosa”. È comprensibile che il Regno Unito chieda una partnership ambiziosa con l’UE, verso il cui mercato interno è coinvolto il 50 % delle proprie esportazioni. Ma la realtà difficilmente potrà incontrare tali aspettative.

L’UE ha già in opera diverse tipologie di partnership economica con Paesi vicini. Il primo è l’Accordo di Collaborazione con tre Paesi (Norvegia, Islanda e Lichtenstein), che fanno parte dello Spazio Economico Europeo (SEE). Sulla base del Trattato che istituisce quest’ultimo, quei Paesi beneficiano del mercato interno dell’UE, ma in cambio debbono adottare la legislazione dell’UE, debbono contribuire al bilancio dell’UE, non hanno rappresentanti in tali istituzioni (né hanno un qualche potere di veto sulle loro decisioni).

Il secondo è l’accordo che l’UE ha con la Svizzera, simile al precedente ma segmentato in una pluralità di accordi bilaterali. La Svizzera non è tenuta ad integrare automaticamente nella sua legislazione le decisioni dell’UE, ma è spinta a farlo se vuole partecipare al mercato interno. Anche in questo caso, la Svizzera non contribuisce a definire quelle regole, ma deve volontariamente farle proprie.

Il terzo modello è l’unione doganale (parziale) tra l’UE e la Turchia. La partnership è ristretta alle tariffe esterne, dove la Turchia si è dovuta allineare alla legislazione dell’Unione Europea (come nella Politica Commerciale Comune) senza possibilità di influenzarla.

L’UE ha inoltre promosso altri tipi di partnership, come i trattati di libero scambio con Paesi lontani (ad esempio il Canada) che integrano le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio ma non consentono alla controparte una piena partecipazione al mercato interno dell’UE.

 Infine, l’Ue ha sperimentato con l’Ucraina una tipologia di Accordo di Associazione, indicato sia dal Parlamento Europeo che dal Consiglio Europeo come possibile modello da utilizzare per le future relazioni tra l’Unione e il Regno Unito.

Come si vede, di “ambizioso” c’è poco. Tutti i modelli di partnership economica si basano su un trade-off tra indipendenza decisionale e vantaggi economici. Per beneficiare dei secondi, i Paesi esterni all’UE debbono rinunciare alla prima. Non può esserci un regime diverso per il Regno Unito : per mantenere l’accesso al più grande mercato del mondo, i Brexiters dovranno accettare di trasformare il loro Paese in un satellite dell’Unione Europea. Niente male per chi ha voluto uscire dall’Unione in nome della sovranità nazionale.

Insomma, Brexit costituisce una lezione drammatica sulle conseguenze che può generare l’irresponsabilità, oltre che la cecità, di una classe dirigente. Ricordiamocelo quando discutiamo del ruolo dell’Italia in Europa.

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