Il “no deal”, lo scenario Brexit che prevede l’ipotesi di un’uscita di Londra senza un accordo preventivo con l’Unione Europea, mette in allarme il mondo agricolo britannico. Le linee guida del Department for Exiting the European Union (Londra ha pubblicato i primi 24 documenti tecnici, su oltre 80 programmati) si limitano, relativamente al settore primario, a evidenziare le possibili penalizzazioni in capo agli agricoltori biologici, che in caso di un “non accordo” perderebbero i requisiti e le autorizzazioni necessari per esportare le loro merci nell’Unione Europea.

Burocrazia e maggiori oneri doganali andrebbero insomma a colpire “chirurgicamente” solo alcuni comparti, se non prodotti di nicchia, rallentando i pagamenti anche nel caso di acquisti on line, spiega il documento.

Un’ipotesi palesemente riduttiva, secondo il National Farmers Union (NFU), il sindacato degli agricoltori britannici, già sul piede di guerra, secondo cui il vero rischio è un embargo UE su tutti i prodotti agroalimentari UK, che avrebbe un potenziale distruttivo su diverse decine di miliardi di sterline di business.

Minette Batters, presidente dell’NFU, ha bollato le dichiarazioni del governo come un “sobrio promemoria di ciò che è in gioco per gli agricoltori”, avvertendo che un’uscita senza accordo tra Londra e Bruxelles avrebbe implicazioni decisamente peggiori, con ricadute ben più significative rispetto a quelle tratteggiate sommariamente per il settore biologico. Il rischio per l’intero comparto agroalimentare sarebbe un fermo in dogana di diversi mesi, non solo per il bio ma per tutte le produzioni comunque soggette ad approvazioni e certificazioni reciproche.

È evidente che quello del “no deal” sarebbe il più negativo degli scenari Brexit, con i rapporti commerciali che tornerebbero sotto le regole di base del WTO, applicate da Bruxelles per i Paesi Terzi che non hanno alcun accordo di libero scambio con l’Unione Europea.

Si andrebbe verso una totale o parziale chiusura reciproca dei mercati, che colpirebbe un giro d’affari di 45 miliardi di sterline l’anno, per quanto attiene ai soli prodotti agricoli e alimentari, in una condizione peraltro marcatamente asimmetrica, con i 445,9 milioni di consumatori dell’UE-27 che si rapportano ai 65,6 milioni del Regno Unito. Se si guarda alle dimensioni delle rispettive economie sono a confronto $ 13.800 miliardi dei Ventisette con i $ 2.600 miliardi di PIL a marchio UK.

Secondo uno studio realizzato dal Parlamento Europeo un ritorno alle regole del WTO implicherebbe una riduzione degli scambi nel settore agroalimentare attorno al 62% in entrambe le direzioni. Lato UE, a subire i maggiori contraccolpi sarebbero Irlanda, Paesi Bassi e Francia. Alcuni prodotti Made in EU esportati oltre Manica subirebbero inoltre un vero e proprio collasso, con perdite preventivate fino al 90% per riso, carni, zucchero e lattiero-caseari.

Secondo Soil Association, il principale organismo britannico di certificazione del bio, il “no deal” equivale a imboccare la peggiore porta di uscita per Londra. Negativo il giudizio sulle linee guida del governo che, secondo l’associazione, non risolvono la questione più critica sul riconoscimento dello status di biologico ai prodotti che hanno ottenuto la certificazione in Regno Unito.

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