Ivano Vacondio, appena eletto presidente di Federalimentare per il quadriennio 2019-2022 (entrerà in carica il primo gennaio prossimo) ha invece avuto modo di farsi apprezzare negli anni passati alla guida di Italmopa, l’associazione che rappresenta l’industria molitoria nazionale, la “cerniera” della filiera simbolo del Made in Italy agroalimentare, che compra il grano e lo trasforma in sfarinati e semole per la produzione di pasta, pizza e dolci.

Vacondio è stato presidente di Italmopa per due volte, dal 2005 al 2008 e dal 2013 al 2016, ed è tuttora membro del Consiglio di Presidenza dell’Associazione dei Mugnai. Le sue battaglie sono state sempre portate avanti in un’ottica di filiera e di gioco di squadra, rivendicando – spesso in modo sanguigno ma sempre sincero e leale – l’importanza del ruolo dell’industria di prima trasformazione, la necessità (oggi più che mai attuale) per la competitività del sistema Italia di disporre di adeguate strutture di stoccaggio differenziato e, forse la più importante, quella della primavera 2008, quando in piena “bolla” dei prezzi delle materie prime agricole, con il grano duro a € 600 per tonnellata, si schierò contro la “ritenzione” del grano. Lo strano fenomeno per cui, nella speranza di ottenere guadagni ancora maggiori, gli agricoltori sono restii a vendere anche con prezzi altissimi e fuori mercato, per poi ritrovarsi con il cerino in mano quando le quotazioni crollano. Quella volta ebbe ragione, perché fu esattamente quel che successe a molti cerealicoltori del Sud che di fatto non riuscirono a spuntare grandi margini nemmeno in quella (forse) irripetibile primavera. Dopo un manager alla guida di Federalimentare torna un imprenditore “puro”. Quali saranno le priorità del suo mandato?

Non toccherebbe a me ricordarlo ma lo faccio lo stesso: in passato mi ero già battuto, quando ho fatto il “saggio” per l’elezione dell’attuale presidente, perché fosse eletto un imprenditore. Questo perché credo che una classe imprenditoriale debba avere alla guida un imprenditore.

Lo scenario attuale dei mercati agricoli è cambiato radicalmente negli ultimi anni e oggi la maggior parte delle commodity soffre un eccesso d’offerta con i surplus che tengono le quotazioni – a partire proprio da quelle dei frumenti – inchiodate ai minimi. Questo produce tensioni all’interno delle filiere che forse le ricordano quelle vissute da presidente Italmopa.

Per prima cosa vorrei dire che ora per me è importante non essere di parte. Cercherò di portare avanti, al meglio delle mie possibilità, le istanze di tutti i settori. Lo dico perché so bene che questa era una delle principali perplessità che hanno accompagnato la mia elezione. È vero che negli ultimi dieci anni è cambiato radicalmente lo scenario, e siamo passati dalla carenza all’eccesso d’offerta: ma nonostante i surplus globali in molti settori l’Italia resta fondamentalmente un Paese deficitario di materia prima.

Quello che non è cambiato sono le tensioni all’interno della filiera agroalimentare sul reale significato del “Made in Italy”, con le rivendicazioni sull’etichetta d’origine per la materia prima in (apparente) contrasto con l’attuale normativa che fissa il discrimine nell’ultima lavorazione sostanziale.

Una delle principali sfide che abbiamo davanti è certamente quella sul “vero” Made in Italy, ovvero se debba essere riconducibile alla sola materia prima oppure anche al prodotto trasformato. Su questo bisogna essere il più obiettivi possibile su alcuni dati di fatto: in campo internazionale ci viene riconosciuta da tutti una leadership nel settore agroalimentare, conquistata con i sacrifici di tanti imprenditori che hanno girato il mondo per promuovere le proprie eccellenze. Mentre i consumi interni rallentano, l’export cresce anche a doppia cifra in certi settori. La qualità dei nostri prodotti dipende anche dalla nostra capacità di sapere individuare le migliori materie prime, delle quali siamo notoriamente deficitari, a prescindere dalla loro origine. Questo vale per tutte le nostre maggiori filiere: dal settore lattiero-caseario alle carni passando per i cereali. Importiamo una percentuale significativa, mediamente il 50%, del fabbisogno e abbiamo comunque un’immagine fortissima all’estero proprio perché la tradizione del Made in Italy nasce dal prodotto trasformato. Poi se il consumatore, che è il nostro vero patrimonio, predilige il 100% di materia prima italiana possiamo e dobbiamo cercare di accontentarlo, ma dobbiamo partire da questo dato. E su questo è stato fatto uno sforzo importante, ma non si può identificare il Made in Italy con il 100% di materia prima italiana, proprio perché la nostra capacità di trasformare materie prime è la migliore al mondo.

Anche volendo, non potrebbe esistere il cibo italiano attuale senza ricorso all’import. È preoccupato per l’escalation delle guerre commerciali?

L’industria alimentare italiana continua a crescere all’estero mentre i consumi interni calano: è una risposta implicita. Sempre ricordando che la materia prima nazionale è insufficiente. Noi su questo vorremmo dialogare con tutte le organizzazioni agricole e con tutte le istituzioni per sensibilizzarle sul tema della promozione e internazionalizzazione dei nostri prodotti. Questo può costituire un elemento unificante di tutta la filiera. Lavoreremo a cominciare da gennaio per unire e non dividere. E in questo è fondamentale il ruolo delle istituzioni, mantenendo fermi i nostri principi.

L’agroalimentare, insieme alla moda, è il biglietto da visita dell’Italia all’estero ma gli ultimi dati ISMEA confermano una distribuzione della ricchezza sempre più sbilanciata a vantaggio di trader e GDO, a scapito della componente agricola ma anche industriale. Vuole lanciare un appello alle istituzioni alla vigilia di riforme importanti, anche sul fronte comunitario?

L’agroalimentare è la seconda industria manifatturiera del Paese, siamo bravi e capaci. Io faccio questo mestiere in un settore relativamente marginale, ma ne sono orgoglioso, perché facciamo un prodotto va sulle tavole degli italiani tutti i giorni. Sono elementi che dovrebbero rendere orgoglioso il Paese, e invece questa deriva anti-industriale che sta montando negli ultimi anni è deleteria e autolesionista. Posso anche essere d’accordo sulla necessità di redistribuire la ricchezza, fare questo è un diritto e un compito della politica, ma chi produce ricchezza va salvaguardato: gli imprenditori producono ricchezza e questo valore va sì regolato, ma prima va tutelato perché il primo obiettivo dev’essere produrre ricchezza.

Un altro obiettivo importante è riprendere in mano con forza una comunicazione corretta e forte. In questo i media hanno qualche responsabilità rispetto a una comunicazione spesso non veritiera e in cui talvolta viene premiato con maggiore visibilità chi urla più forte, quando invece conta essere portatori di verità. Sulle battaglie comunitarie che ci aspettano, dalla riforma PAC al bilancio UE, conto sulle migliori risorse presenti nelle nostre associazioni di categoria.

 

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